Molte sono state le occasioni per lanciarsi in qualche riflessione.
Non sono mancati, di certo, gli argomenti …
Alcune citazioni erano d’obbligo.
Ci si poteva dimenticare delle donne Ukraine? Quelle rimaste in patria in assenza di possibili mete alternative e quelle già lontane da casa, come le “badanti” che noi conosciamo bene per il ruolo che ricoprono nei confronti della nostra popolazione più anziana …
E delle ragazze iraniane? Che hanno pagato con la vita solo per aver azzardato di mostrare i capelli? E per aver manifestato la loro voglia di vivere? Che cosa vuol dire infatti il loro motto “DONNA VITA LIBERTA” se non unicamente diritto alla vita?
E delle ragazze afghane? Che per andare a scuola devono fingersi e tramutarsi in maschi?
E lasciatemi aggiungere le donne di Bukavu che ho nel cuore più di altre solo per averle viste all’opera per la sopravvivenza dei più piccoli, per la coltivazione dei campi, per l’alimentazione, per la vita e il futuro dei piccoli, dei ragazzi, dei giovani che quotidianamente caricano sulle loro spalle, per una vita minacciosa che le ha sottoposte a violenze tra le più atroci.
Potrei continuare a lungo, ma mi fermo qui.
Voglio solo allargare lo sguardo verso il passato. Un passato anche recente.
Sono stato a teatro qualche sera fa. Qui, a Castel San Pietro, al Jolly dove il mio amico Dario, attore, regista, imprenditore, operatore culturale di grande talento, propone da tempo un teatro gradevole e coraggioso.
Non era proprio l’8 marzo, l’odore della festa della donna era ancora vivo e il titolo dello spettacolo lo richiamava chiaramente: MIMOSE.
Al termine mi sono sentito spinto a comprare il testo. Ne farò omaggio alle mie nipoti, sperando che in casa loro quel prezioso libretto resti a disposizione anche dei maschi e che proprio ai maschi venga la curiosità di sfogliarlo e di lasciarsi trasportare nel tempo e nello spazio per conoscere alcune donne che hanno lasciato e ancora possono lasciare il segno.