Ci sono esperienze che non puoi dimenticare
I giorni dell’infarto
Difficile registrare qualcosa in modo ordinato in questi giorni, ma si può provare.
Casa mia. 11 febbraio 2020, fine mattinata. Un immediato, insopportabile dolore dietro le spalle che si diffonde rapido in zona sterno e lungo il braccio. Vomito. Intuisco.
É un infarto. Silvana telefona al dottore. Nessuna risposta e allora sia 118. Tempo 13 minuti l’ambulanza è davanti a casa. Scendo con i miei mezzi. Mi dicono che non c’è da preoccuparsi. E non mi preoccupo, però non perdono tempo. Decidono per Villa Maria Cecilia Hospital di Cotignola.
Da Comellini a Castel San Pietro si va a comprare prosciutto e leccornie e loro si fermano per far salire il medico che avverte del mio arrivo.
Ci siamo. Mi pare di vivere un film. Salto da una barella all’altra che già corre lungo un bianco corridoio. Brusca frenata e si materializza una sala operatoria. Divise verdi, bianche, blu, sincronie studiate e perfette, bip, luci si incrociano, monitor mostrano percorso e dati, bip, bip, bio qualcosa penetra e si insinua, rallenta, curva, bip, bip, bip…
Ci siamo. Tre e mezzo… meglio quattro? Tre. … bip, bip, bip, … Ormai sono bionico.
La lettiga è già in viaggio. Si sale, usciamo al terzo. Terapia Intensiva. Stanza n. 1.
Son passate due settimane, poco più e ormai l’ospedale è per me un ricordo. Di nuovo tra le mura di casa, il malato che è in me si sfarina giorno dopo giorno. In realtà non mi sono mai sentito veramente malato. La sofferenza fisica è terminata già al momento della partenza dell’ambulanza da casa mia, risolta da una di quelle sostanze miracolose che chi ne sa ed è lì per provvedere ti inocula immediatamente. Dopo, a farti sentire malato contribuiscono l’ambiente, i tuoi cari persino troppo assidui e attenti, la presenza continua degli addetti con le loro divise, la loro gentilezza, la loro determinazione.
E tu Ti guardi intorno e scopri. Perché l’ospedale è ricco di persone e questo, in particolare, di persone che vengono da lontano.
Salerno, Caserta, Fermo, ma anche Africa. Pelle non mente. E sarà che siamo tutti così presi dalle mille paure indotte dai mille aspetti di una globalizzazione non digerita, ma anche qui affiorano fantasiosi ragionamenti intorno a chi dovrebbe o non dovrebbe poter fruire dei servizi di un ospedale come questo.
Il discorso sta sulle generali: – Vede? Ma quanti letti in più ci sarebbero a disposizione per noi italiani? E invece …
Non mi sento di rispondere. In fondo anche lei che assiste il mio compagno di stanza è provata, sicuramente ha sofferto. Eppure dentro di me non posso fare a meno di pensare che anche il suo assistito non è proprio “del posto”.
Cinque minuti e abbiamo una visita. Un fraticello con tanto di stola pronto a farci pregare:
- Sono Padre Giuseppe! Da dove venite?
La provenienza è la prima domanda. E non può essere diversamente in un ospedale come Villa Maria Cecilia al quale si ricorre da ogni parte del mondo e nel quale operano medici di molte parti del pianeta.
Solo io di questa regione. Realizzo che la mia convinzione di essere nato nel tempo e nel luogo migliore si rafforza una volta di più. Non avevo mai verificato di persona l’eccellenza della sanità emiliano romagnola, ora con questa esperienza si colma anche questa mia lacuna.
Il mio coinquilino è marchigiano ed è in partenza. Ma dovrà tornare. Lo hanno ricoperto di prescrizioni, di consigli, di farmaci e… di un nuovo appuntamento.
Padre Giuseppe ormai si congeda. Ma io non resisto:
- E lei, padre, da dove viene?
- Ah… Indovina indovinello!
Non era difficile la risposta, ma preferisco andare per gradi - Intanto … dall’Asia.
- Bravo! Ma l’Asia è grande, fratello!
- E allora, India!
- Perfetto.
Com’è piccolo il mondo! Pochi metri quadri lo spazio, tre giorni il tempo e intorno a me ruotano italiani da Salerno, da Caserta, dalle Marche e ora dall’India…
Non passano cinque minuti e si affaccia un medico. In questi pochi giorni di permanenza non mi era ancora capitato di incrociarlo. Infatti non è venuto per me, ma per dare le ultime disposizioni al mio vicino. Divisa d’ordinanza, grande sorriso, grembiule immacolato, fonendoscopio al collo e… faccia nera. E così lAfrica non è presente solo tra gli ammalati, ma anche fra i medici.
Ce n’è da riflettere. Per tutti.
Ritrovo questo scritto due anni e mezzo dopo.
L’intenzione, allora, era di lasciare sulla carta i momenti più significativi di un’esperienza praticamente unica per me. Non avevo mai soggiornato tanto a lungo in ospedale nella mia vita di ottantenne e mi sembrava opportuno lasciare qualche piccolo flash ai posteri. Avevo già approntato anche i titoli.
Cose mai viste: L’Irene di Moraduccio
Compagni di banco
L’ecodoctor alla Cappella Sistina
Politica da Hospital
Ebbene soltanto uno di quei titoli rievoca qualche immagine, l’Irene di Moraduccio, una signora con qualche anno più di me, forse sulla novantina, una donna molto spigliata, me la ricordo chiacchierona. Nella stanza per assicurare la giusta riservatezza avevano collocato tra il suo e il mio letto un separé, ma qualche scambio di idee ci fu, qualche informazione sul luogo di provenienza e poco altro. Gli altri titoli non mi suggeriscono più nulla. Peccato, perché complessivamente fu un’esperienza ricca di stimoli e di riflessioni.
Non dimentico che negli ultimi giorni della seconda settimana di degenza, quella trascorsa all’ospedale nuovo di Imola, medici e infermieri comparvero mascherati: anche dalle nostre parti aveva fatto capolino il Covid.
Oggi, 25 Agosto 2023, ho ritrovato questo scritto del febbraio 2020 e la curiosità è rimasta intorno a quell’abbozzo di titoli lasciati privi di ulteriori spiegazioni. Ma della Signora Irene non posso tacere l’aria di mistero che inducevano le informazioni che lei stessa forniva sul suo luogo di provenienza con quel nome dalla desinenza toscaneggiante: Moraduccio.
E così ho cercato. Su Google si trova tutto. La cosa più bella è indubbiamente la cascata
Basta un clic e vi trovate in un posto meraviglioso. Non saranno le cascate del Niagara, ma un salto d’acqua di 30 metri non è cosa da poco. Mi viene una gran voglia di andare a vedere, anche perché sono al confine tra la provincia di Bologna e quella di Firenze e, guarda caso, proprio lì, sulla strada c’è una trattoria che si chiama proprio La Cascata e, ancora una volta sarà il pc o il cellulare ad offrirti l’anteprima dell’acquolina in bocca.
Come sempre io dovrò fare attenzione, perché prima di congedarmi dall’ospedali i medici a consulto fecero a gara nell’impartire prescrizioni e consigli: non oltrepassare i mille metri di quota – o anche milleduecento per qualcuno più largo di manica – e sulla carne il limite era dato dal colore: carni bianche e quindi, addio fiorentine e compagnia. Fortunatamente un medico più simpatico fece notare che ora ero guarito, perciò …
Mi fermo qui.