Non ho mai nascosto la mia appartenenza all’Azione Cattolica. Anzi, ne ho sempre fatto motivo di orgoglio e ancora la sento associazione capace di ispirare saggiamente lo stare nella politica dei cattolici, lontano da atteggiamenti integralisti, con quel rigore laico impegnato a distinguere quel che è di Cesare e quel che è di Dio. Come Rosy Bindi sostiene.
Ebbene venerdì 12 febbraio ricorre il trentesimo anniversario del sacrificio supremo di Vittorio Bachelet, assassinato dalle Brigate rosse il 12 febbraio 1980 nei corridoi dell’Università di Roma. Accanto a lui proprio la giovanissima assistente Rosy Bindi.
Vittorio Bachelet era stato presidente dell’Azione Cattolica Italiana dal 1964 al 1973. In quegli anni anch’io ebbi qualche responsabilità nell’Associazione a livello diocesano e non posso non rammentare quanto proprio quegli anni, segnati dal papato di Giovanni XXIII e di Paolo VI, incidessero sulla mia formazione e di tanti giovani cattolici. Proprio in quel ruolo di vice presidente diocesano della GIAC (Gioventù Italiana di Azione Cattolica) e, successivamente come responsabile diocesano dell’Azione Cattolica Ragazzi, ebbi occasione di ascoltare in almeno due convegni nazionali le parole cariche di profezia e di grande apertura alle suggestioni del Concilio di Vittorio Bachelet.
Ecco perché non posso non far posto tra questi appuntamenti periodici a un ricordo apparso sull’ultimo numero di Segno nel mondo, il quindicinale dell’AC a firma di Luca Diliberto, docente di lettere presso l’Istituto Leone XIII di Milano, ed autore di volumi e saggi su figure e vicende della storia della Chiesa italiana nel Novecento.
Non può, un articolo, presentare in modo esauriente una figura così ricca e significativa per la storia della Chiesa e della società italiana, ma ne traccia sicuramente un profilo utile ad una prima conoscenza.
C’è poi un particolare, modestissimo, ma per me insieme curioso e simpatico, che collega la mia vita allasua. Per qualche anno sono stato presidente dei Giovani di AC della mia parrocchia: S.Antonio di Savena a Bologna. Bachelet era passato anche di lì come testimonia la sua biografia: “nel 1932 la famiglia Bachelet si trasferisce al seguito del padre, ufficiale del genio, a Bologna e nel 1934, il piccolo Vittorio viene iscritto nei fanciulli di Azione Cattolica, presso il circolo parrocchiale di S. Antonio di Savena. È solo una coincidenza, niente più e nemmeno contemporanea, ma mi fa sentire più vicino quest’uomo, questo martire civile di un terribile periodo del nostro Paese.
Vittorio Bachelet: la lezione di un cristiano coerente
di Luca Diliberto
Renato Buzzoletti, medico personale di Giovanni Paolo II, che nel maggio 1981 lo assistette dopo l’attentato in piazza San Pietro, ha rivelato che tra le primissime parole pronunciate dal Papa, risvegliatosi dopo l’operazione, fu ascoltata una specie di invocazione: «Come a Bachelet…». Nel cuore del pontefice Vittorio Bachelet aveva dunque un posto speciale, tanto che la sua figura e il suo martirio riemersero in un momento così grave. È innegabile che quanto quest’uomo seppe paradossalmente comunicare con la sua morte (12 febbraio 1980), col suo sacrificio, e soprattutto nel giorno del suo funerale al paese, ai cittadini spaventati e stremati da anni di terrorismo e di insicurezza, agli uomini delle istituzioni rappresentò allora un insegnamento capace di generare inattesi percorsi di riconciliazione.
Ma quella morte, incontrata in pieno giorno nei corridoi dell’università in cui insegnava come docente di Diritto pubblico dell’economia, non può essere seriamente affrontata senza riferirsi a una vita intera che ha molto da raccontarci anche oggi, a trent’anni esatti da quegli avvenimenti.
Bachelet era nato nel 1926, in una famiglia radicata in una religiosità non di facciata, ed era cresciuto assieme a fratelli che seppero fare presto scelte impegnative: Adolfo, il maggiore, e Paolo divennero gesuiti; Giorgio era impegnato nella Fuci, divenendo redattore di Ricerca. Degli anni giovanili rimane la percezione di una personalità capace di spingersi oltre la mediocrità del tempo, di ricercare riferimenti formativi solidi in un contesto confuso e cattivo, ovvero il tratto terminale del regime fascista; soprattutto la volontà di sbilanciarsi per una fede solida, una spiritualità esigente, che matura a poco a poco dentro una vocazione laicale desiderata, e non subita.
Iscritto all’università nel 1943, giunse anche lui a collaborare con la Fuci nazionale verso il termine del conflitto e, una volta laureatosi (1947), a iniziare l’attività di ricerca in università e l’impegno di elaborazione culturale attraverso i periodici associativi.
Nei suoi scritti di quell’epoca è evidente una passione per il proprio tempo, nei tentativi di dialogare con tutti, anche con quanti ideologicamente parevano molto lontani dal suo mondo vitale, nella richiesta di una ricostruzione del paese che non fosse frutto di compromessi tra pochi, o di una politica capace di interpretare anche i bisogni dei più deboli; e gli è chiara la necessità di tenere distinta l’azione della Chiesa e l’azione nella politica, tanto da temere un uso strumentale della religione a fini politici. Ma questi ragionamenti non avevano allora facile ascolto nella compagine ecclesiale; la stessa Azione cattolica si era trovata a organizzare attività di propaganda, soprattutto attraverso i Comitati civici, sorti a poche settimane dalle elezioni del 1948.
Bachelet, che nel 1951 si era sposato, portò un contributo prezioso a quel periodo ricostruttivo anche tramite i suoi studi giuridici, cercando di porre le basi per una più coerente impostazione della pubblica amministrazione alla luce dei principi della nuova Costituzione repubblicana. Ma questo impegno si intersecò con le responsabilità sempre crescenti in ambito ecclesiale, quando fu scelto da papa Giovanni XXIII come vicepresidente nazionale dell’Azione cattolica italiana, per poi divenirne presidente nel 1964.
L’associazione, che allora contava oltre tre milioni di iscritti ed era stata sino a quel punto l’unico strumento formativo per intere generazioni di credenti, fece i conti con le novità del Concilio vaticano II, il cui messaggio domandava alla Chiesa un profondo rinnovamento; Bachelet comprese che occorreva un impegno a tutto campo, e non semplici aggiustamenti, per ridisegnare i presupposti teorici e le forme strutturali dell’Azione cattolica. I percorsi entro cui la guidò furono essenzialmente due: accoglienza senza sconti del messaggio conciliare (riassunta nello slogan Attuare il Concilio nel nostro tempo) e rimessa in discussione dei metodi e delle strutture, divenute nei decenni precedenti numerosissime. Punto si svolta, la riscrittura dello Statuto (approvato infine nel 1969) attraverso un coinvolgimento di responsabili a ogni livello, ma in particolare chiamando a “fare esperienza” dello stile conciliare i dirigenti locali.
Il frutto più significativo di quell’epoca fu l’elaborazione di un modello di vita credente concretizzato in quella che allora si chiamò “scelta religiosa”: con essa l’Azione cattolica offriva ai laici, a ragazzi, giovani, adulti, famiglie, l’ideale di una fede capace di incontrare il proprio tempo, di amarlo profondamente, il profilo di una formazione non generica o arruffata, ma seria e costante, soprattutto nel rimando alle Scritture e al magistero più avanzato della Chiesa. La scelta religiosa significò anche distinzione di piani tra il politico e il religioso, ovvero il rifiuto del fondamentalismo cristiano, visto come tentazione suprema e corruzione del messaggio di fede. Piuttosto, scriveva Bachelet nel 1970, «nei momenti di svolta della storia si impone in modo più urgente per tutti i cristiani l’essere cristiani veri nella Chiesa e nel mondo».
Lui per primo seppe incarnare questi ideali, sia nella vita personale (improntata sempre alla sobrietà e all’onestà) che nel servizio reso al paese. Concluso infatti nel 1973 il lungo servizio associativo, dovette affrontare nuove e complesse sfide: chiamato a un coinvolgimento diretto nella stagione di rinnovamento della Democrazia cristiana, venne eletto nel 1976 al Comune di Roma. Ma poco dopo fu nominato dal Parlamento nel Consiglio superiore della magistratura e il 21 dicembre eletto, un po’ a sorpresa, vicepresidente. Questo gravoso impegno, che si assommava alla professione di docente e incise profondamente nella vita familiare, cadde in un periodo terribile per l’Italia: gli anni del terrorismo, degli omicidi politici, degli attentati a giudici, sindacalisti, uomini politici, giornalisti… Si trovò dunque al centro di tensioni gigantesche, che affrontò sempre col desiderio di comprendere, di far convergere posizioni estreme, di sostenere le istituzioni democratiche.
Svolse questa funzione con coscienza e passione sino al 12 febbraio 1980, quando due giovani, militanti nelle Brigate rosse, lo attesero fuori dall’aula universitaria e lo uccisero; era senza scorta, nonostante fosse già scampato a un ordigno, disinnescato per tempo, sotto il suo studio. Due giorni dopo le fragili parole del figlio Giovanni pronunciate, a nome della famiglia, durante il funerale («Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri») sintetizzarono un intero disegno esistenziale, e non caddero nel vuoto.
Da allora, il suo insegnamento e la sua vicenda non cessano di produrre frutto, di orientare la vita di tanti, di rappresentare un’eredità feconda per la Chiesa e per l’Italia.