Sono sempre stato per la pace e voglio essere ancora per la pace. Ma come si fa a mantenere la bandiera libia in manocoerenza nel momento in cui il tuo paese si impegna in una azione che sa tanto di guerra?

Gli aerei che partono dalle basi di Trapani, i missili Tomawack che piovono sulle caserme, gli aeroporti, i bunker, gli obiettivi sensibili della Libia non lanciano volantini, ma bombe.

A tutti viene da chiedersi se proprio si doveva giungere fin qui, se non si poteva trattare prima e meglio, ma del senno di poi – dice il proverbio – son pieni i fossi. E così si è cominciato a pensare seriamente che l’interlocutore che ci frenava l’immigrazione dietro lauti compensi era un tiranno pronto a massacrare il suo popolo se avesse alzato la testa e preteso la fine del regime.

Abbiamo in molti sperato che la ribellione popolare in Libia potesse avere un rapido successo come in Tunisia e in Egitto. Troppo impari era la lotta e una informazione e una comunicazione come quella di cui il mondo ormai dispone, lo ha rivelato: il tiranno, con la violenza delle sue armi e delle sue milizie, con la forza del suo danaro capace di comperare la disperazione di popolazioni alla fame e trasformarla in forza mercenaria, con inaudite minacce e con subdole lusinghe nei confronti dei sudditi più deboli e indifesi, stava ormai soverchiando una ribellione che altrove aveva avuto successo e creato speranze di libertà e democrazia. Nessuno è tanto ingenuo da non pensare che dietro all’intervento delle potenze che hanno votato la risoluzione n. 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non si nascondano cospicui interessi economici per il presente e il futuro, ma lo slancio manifesto di popoli che ci stanno sorprendendo, di donne, madri e padri con i figlioli in braccio o per mano con gli occhi più aperti di quanto il pigro occidente potesse pensare, di giovani pronti a tutto pur di aprire uno spiraglio ad una vita degna di essere vissuta, non potevano né dovevano sfumare nell’indifferenza. Un’indifferenza pericolosa e rinunciataria, madre di un pacifismo altrettanto pericoloso. La scelta era tra l’aiuto da portare a chi lottava per il proprio futuro a mani nude e l’atteggiamento pilatesco dello stare alla finestra sperando ingenuamente in un incredibile “ravvedimento operoso” da parte di chi stava già strozzando le sue vittime.

Per questo ho raccolto con soddisfazione le parole pronunciate nell’edizione della sera del TG regionale dell’Emilia Romagna di mercoledì 23 marzo e replicate in una chiara intervista di giovedì 24 sulle pagine bolognesi di Repubblica da un medico libico docente nella nostra università che ho recentemente conosciuto.

“Io, esule libico dal Sant’Orsola 
lotto con la Nato contro Gheddafi”Bunkheila

Feisal Bunkheila ha lasciato il suo Paese per studiare Medicina a Bologna: ha creato il coordinamento della sua comunità in Italia. “Siamo dissidenti perché lo conosciamo da 42 anni”

di ILARIA VENTURI

“S’è rotta la barriera del terrore, siamo usciti da un incubo, finalmente. Ora è nostro dovere dare una mano ai ragazzi che stanno morendo in Libia in nome della libertà”. Feisal Bunkheila ha lasciato la sua patria per studiare Medicina a Bologna, e qui è rimasto, dopo la specializzazione in oncologia e radioterapia oncologica. Medico al Sant’Orsola, bolognese d’adozione, libico dissidente. Costretto a vivere nella paura, come tutti quelli fuggiti dal regime, per 42 anni.

Ora è la voce dei libici italiani che proprio a Bologna hanno creato il coordinamento della loro comunità in Italia. In tutto, sono un migliaio, e quelli che vivono in città si contano sulle dita d’una mano. “Chiediamo il riconoscimento del governo provvisorio di Bengasi, vogliamo far capire che è una rivolta popolare, per la dignità, la libertà, la democrazia”.

Domenica scorsa una cinquantina di loro, provenienti da varie città, si sono ritrovati in una sala del circolo Pd alla Bolognina. Abbracci e lacrime, un doloroso pensiero alle stragi di Misurata, agli scontri a Bengasi, ai familiari in pericolo a Tripoli, a coloro che vivono nelle case sotto le bombe. Ma anche la speranza, ora.

”Siamo dissidenti perché conosciamo Gheddafi da 42 anni ed è il motivo per cui io ho preferito, dopo gli studi, rimanere qui: in Libia non c’era libertà – racconta Feisal -. Ci conosciamo quasi tutti, da una vita, e ci siamo riuniti per parlare della situazione nel nostro Paese, per organizzarci”.

Il coordinamento appena nato ha già preso contatti con Emergency, con la Croce Rossa e altre organizzazioni umanitarie. “Vogliamo sostenere la nostra gente, con medicinali e tutto quello di cui ci sarà bisogno. Il regime ha oppresso il mio popolo, Gheddafi e la sua famiglia hanno avuto la disponibilità di tutto, della nostra vita, delle nostre risorse, del nostro onore, delle nostre famiglie. Di qui la ribellione”.
Da Bologna, il medico e coordinatore della Comunità libica appoggia l’intervento Nato. “Era indispensabile, anzi doveva esser fatto prima. Io odio la violenza e la guerra, sono un medico, lavoro per salvare le vite. Ma l’Occidente doveva intervenire. Ricordo che sino a sabato scorso Bengasi era destinata a diventare un’altra Bosnia. Chiediamo che il bagno di sangue s’arresti. Gheddafi ha perso la legittimità a governare la Libia, non può più essere un interlocutore per il mondo libero”.
Sull’arrivo di profughi, che saranno accolti anche in Emilia Romagna, Bunkheila è netto: “La mia gente non vuole rimanere in Italia, ma vivere in Libia. Se arriveranno, sarà per l’emergenza, poi torneranno a casa”. Per lui la storia è diversa: “Se io rientrerò in Libia, sarà per aiutare, ma la mia vita è ormai qui”. E torna indietro, coi ricordi, alla fine degli anni ’70: “Mi trovavo con gli altri pochi libici che vivono qui e non ci sentivamo mai protetti, avevamo paura per la nostra famiglia. E così siamo vissuti: lontani, da cittadini italiani, con le radici e il cuore in Libia, ma nel terrore. Ora l’incubo deve finire, è finito”.

(24 marzo 2011)

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