C’è solo da sperare che questo, della Spinelli, sia ottimismo dell’intelligenza. Certo, anche il suo. Perché se davvero è così, possiamo realmente riacquistare fiducia. Fiducia nel presente e nel futuro. possiamo pensare che stiamo davvero uscendo dal tunnel, che la notte italiana, questa interminabile notte, sta per finire. Gli argomenti che l’analisi della Spinelli porta sono credibili, perché sono sostanziati dai numeri.
Non ci capacitavamo di fronte alla realtà di un Paese che sembrava incapace di reagire, non ci capacitavamo di fronte ad un Parlamento ostaggio del dio denaro, non ci capacitavamo davanti all’incapacità della classe politica di esprimere figure nuove e credibili, non ci capacitava una rabbia che si sostanziava nella fuga dalla politica e dalle urne, si rimaneva a bocca chiusa di fronte alla reiterata domanda che immancabilmente ci veniva rivolta nei nostri viaggi all’estero: ma come avete fatto? Ci stavamo convincendo, di fronte a pezzi di mondo che, convinti che “yes, we can!”, provavano a realizzare il change obamiano, noi non saremmo mai stati capaci.
Gli altri affrontavano la sfida del cambiamento in piazza Tahrir, gli altri affrontano la sfida cavalcando con speranza le onde spesso crudeli del Mediterraneo. Anche in Europa gli altri riescono a trasformare la connessione virtuale in connessione reale e si ritrovano fratelli e sorelle dalla Puerta del Sol a Piazza Catalunya. Solo gli altri? Sembrava.
E invece? Da qualche settimana abbiamo la prova. Non dorme il nostro popolo.
Anche la nostra protesta disperata, quella dei giovani sui tetti delle università, quella degli operai sulle gru, … quella degli studenti, delle studentesse, delle famiglie preoccupate per l’avvenire di figli e nipoti, quella delle donne offese nella dignità, quella dei cittadini con meno diritti, quella dei cittadini basiti per l’uso impazzito del potere, quella di un popolo che si veste di viola per difendere la legalità continuamente minacciata, quella di coloro che vogliono tornare ad eleggere i parlamentari … Questa protesta si ritrova unita – anche oltre le strategie e le tattiche dei singoli partiti di governo e di opposizione nelle urne elettorali. Starei per dire “nel posto giusto” soprattutto per chi, come noi, vive in un paese democratico.
Infatti a Torino dove il sindaco uscente aveva dato ottima prova, c’è stato un naturale avvicendamento dello stesso segno politico, a Bologna si è recuperata la normalità amministrativa dopo la punizione del commissariamento e, proprio attraverso un bel passaggio dalle primarie, il centro sinistra è risultato maggiormente credibile e ha vinto al primo turno. A Milano, belle primarie e centro sinistra vittorioso mentre il sindaco delle illusioni e delle paure è stato mandato a casa. A Napoli, dove le primarie avevano prodotto un brutto flop, gli elettori si sono ripresi il potere di scegliere e, al secondo turno, hanno mandato il candidato che preferivano. E lo hanno fatto vincere. Coraggio! Qualcosa è scattato.
di BARBARA SPINELLI
SE NON ci fossero state persone come Giuliano Pisapia e Luigi de Magistris, nelle due città malate d’Italia che sono Milano e Napoli, probabilmente non avremmo assistito in diretta alle fine politica di Berlusconi e della sua inaudita magia. Molti elementi hanno contato, e tra questi sicuramente la coalizione divenuta un garbuglio, la cocciuta scommessa di Gianfranco Fini su una nuova destra legalitaria, la smisurata insipienza di un premier che s’aggrappa follemente a Barack Obama come Michele Sindona s’aggrappò negli anni ’70 agli amici americani.
Ma il vento più impetuoso viene da altrove, viene da dentro gli animi, è una forza che ha travolto tutti i copioni consueti. Eravamo abituati a dire, con Gramsci, che quel che urge è il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà. Non è vero. Quel che ha vinto, a Milano e Napoli, è l’ottimismo della ragione: lo sguardo chiaro, veggente, sui tanti segnali degli ultimi anni. Il non possumus di Fini, le onde viola, la manifestazione delle donne il 13 febbraio, irradiatasi da Internet come virus (“Bastava non votarlo”, diceva un cartello: è stato preso sul serio). Qualche giorno dopo, al festival di San Remo, il televoto scelse Roberto Vecchioni e anche quello fu un segno.
Alle nostre spalle, ci sono tanti sassolini bianchi che hanno finito col mostrare la via, come nella fiaba di Grimm. Li abbiamo messi noi, cittadini-elettori. Il castello che sembrava granitico, è il popolo sovrano che l’abbatte; lo stesso popolo che il premier usa per affermare un potere illimitato. Un’immensa e tranquilla fiducia di potercela fare, un’intelligenza-conoscenza dell’Italia reale, una voglia di provare alleanze interamente centrate sull’etica pubblica e la legalità, un’estraneità profonda ai partiti dell’opposizione, alle loro élite: questi gli ingredienti che hanno fatto lievitare il pane che abbiamo mangiato lunedì. E il senso che sì, più di Gramsci valeva Pessoa: “Tutto vale la pena, se l’anima non è piccola”. Chi ha ottimismo della volontà, lasciando che la ragione si deprima e inebetisca, altro non gli resta che la volontà di potenza.
L’ottimismo dell’intelligenza apre lo sguardo ai segni – rendendo visibile l’invisibile – entra in sintonia con le mutazioni di una società, resuscita parole diradatesi per malinconia. È possibile ricostruire una Milano accogliente, capitale morale. È possibile strappare il Sud a mafia, ‘ndrangheta, camorra, corona unita, cominciando dalla città-Babilonia che è Napoli. Non ci fa paura la paura. Luigi Bersani ha avuto la saggezza (dopo due sconfitte dei candidati Pd: alle primarie milanesi e nel primo turno a Napoli) di presentire che questa primavera italiana lui doveva assecondarla, aiutarla. Come scrive nel suo blog Pietro Ancona, già segretario della Cgil, Bersani s’è mostrato capace di buon senso: “Ha preferito vincere senza essere il protagonista principale, piuttosto che perdere essendolo”. Anche questo è ottimismo dell’intelligenza.
Non siamo più invischiati in un Pd che corre da solo, che fa cadere Prodi presumendo di liberarsi della zavorra di Antonio Di Pietro o della sinistra radicale. Che per anni ha avuto come scopo essenziale quello di esser battezzato “riformista” dal finto sacerdote Berlusconi. Pisapia, Vendola, De Magistris guardano al potere senza più complessi: aspirano a prenderlo, con fiducia in sé, nel proprio ragionare, negli elettori. Gli stessi vizi della sinistra radicale (la riluttanza a governare, a pagare il prezzo che questo comporta) si fanno obsoleti e inutili. Crederci, non crederci: questo era il dilemma, se parafrasiamo Amleto. “Se sia più nobile sopportare gli oltraggi, i sassi, i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli”. Sulla bilancia è stata la forza trasformatrice della verità a pesare: forza malinconica forse – disvelatrice di fatti e misfatti – ma non pessimista. I veri giustizialisti sono stati in questi anni coloro che più esecravano i magistrati. Fino a quando non si è condannati in terzo grado, tutto è permesso: gli insulti, le più immorali condotte pubbliche. Gli elettori delle amministrative restituiscono alla politica la sua vera ambizione: quella di agire e correggersi prima che intervenga il magistrato. Quella di non contar frottole, quando la crisi infuria.
C’è infine la crisi, che cambia il vento: un po’ come in America quando vinse Obama. I candidati dell’opposizione non si sono accontentati più di dire: “Noi italiani siamo fatti così, c’è poco da fare”. C’è invece, a cominciare da sé. Basta legger con cura i dati Istat sull’economia che barcolla, e la chimera dell’Italia immunizzata evapora. Basta scoprire come l’economia di intere regioni stagni, perché pervasa dall’illegalità, dallo sprezzo dello Stato. È molto significativo che a Napoli sia un uomo di legge (“malato di protagonismo”, dicevano le sinistre fino a poco tempo fa) ad aver conquistato uno straordinario 65,4 per cento. Tutto quello che sappiamo dei disastri economici causati dalle mafie, o del peso ricattatorio esercitato a Napoli e Roma da persone come Cosentino, gli ottimisti dell’intelligenza l’hanno appreso da indagini giudiziarie preziose. I magistrati sono per Berlusconi brigatisti, cancri, uomini antropologicamente diversi. Ora è antropologicamente diversa gran parte d’Italia. Sarà interessante vedere se anch’essa sarà insultata: come la Consulta, la Costituzione, il Quirinale, la magistratura, l’informazione indipendente.
Nel berlusconiano impero dei segni, tanti s’erano installati: vassalli riottosi, ma pur sempre vassalli. Anche il Pd, quando faceva mancare i propri voti alla Camera; anche Casini, quando approvava la legge liberticida sul fine vita. Scoraggiamento e pessimismo li inchiodavano dov’erano. Un’altra Italia ha fatto scoppiare la bolla dei segni, con la spilla dei buoni argomenti, la mitezza dei candidati, anche con lo scherno: c’è stato un momento, fra i due turni, in cui ha fatto irruzione l’ironia e il banco di Berlusconi è saltato. È stato quando un utente twitter ha lanciato un appello alla Moratti: “Il quartiere Sucate dice no alla moschea abusiva in via Giandomenico Puppa! Sindaco rispondi!”. Al che il sindaco: “Nessuna tolleranza per le moschee abusive!”. Era una bufala, né Sucate né Puppa esistono. Così come non esistono l’Italia berlusconiana, gli annunci miracolosi del premier. Un’esilarante fandonia ha scacciato la fandonia sempre meno allegra, sempre più cupa, del leader.
Prima o poi la ribellione doveva venire, connettersi al mondo reale. Un mondo dove i giovani, stando all’Istat, sono derubati di futuro: con tassi di disoccupazione superiori di 3,7 punti rispetto alla media europea; con un’emigrazione all’estero in aumento, perché il merito da noi non conta più. Quasi la metà dei giovani occupati è precaria. Quasi un quarto è Neet (acronimo inglese di Not in Education, Employment or Training). Ora si tratta di vedere cosa l’opposizione farà: come costruirà, dopo aver distrutto. Come si mobiliterà per il referendum su acqua, legittimo impedimento (legalità), nucleare. È un’impresa colossale, dopo anni di crisi negata. Il 24 maggio, la Corte dei Conti ha ammonito: per raggiungere un rapporto fra debito pubblico e Pil pari al 60% (per evitare la bancarotta greca, come chiesto dall’Europa), l’Italia dovrà ridurre il debito del 3% all’anno, pari oggi a circa 46 miliardi.
Per Berlusconi, è missione impossibile: a causa del governo infermo, e del populismo. Ma sinistra e altri oppositori ne sono capaci, dopo aver sostenuto in questi anni che Prodi cadde per colpa del rigore? Sono capaci di dire che le tasse non vanno diminuite, che nell’economia-mondo la crescita sarà debole, i sacrifici non comprimibili, l’equità tanto più indispensabile? La strada è impervia. Ma l’Italia forse ascolta oggi parole di verità, se chi le dice avrà l’ottimismo dell’intelligenza, oltre a quello della volontà.
(01 giugno 2011)